Il protocollo di Kyoto è diventato maggiorenne. Da quel lontano dicembre del 1997, quando al tavolo delle trattative i leader di 180 Paesi si erano dati la mano per assicurare al Pianeta un ambiente più dignitoso, ne è passata di acqua sotto i ponti. Altra acqua, non quella piovana però, visti gli scenari siccitosi che emergevano man mano dagli studi intrapresi in ambito climatico, è passata dalla ratifica dell’accordo alla sua attuazione (febbraio 2005).
Da allora si sono susseguite conferenze di aggiornamento sullo stato dell’arte, tuttavia i risultati concreti si sono sempre rivelati modesti. Ora siamo a Parigi 2015, l’aria che gira tra i 195 negoziatori è quella di chi sa che perdere l’ultimo treno significherebbe andare a piedi. E forse, visti i dati sulle emissioni di gas inquinanti, con l’Italia che si trova in testa per mortalità da smog, sarebbe anche un bene.
Intanto ogni leader avanza la sua proposta personalizzata, Obama fa sapere che gli USA hanno passato la palla di Paese più inquinante a India e Cina, Hollande accosta cambiamento climatici e immigrazioni di massa, con relativi rischi terroristici, e c’è ben da capirlo, Renzi gioca abilmente con le parole, mentre Putin, la Merkel e Cameron puntano più sul concreto proponendo l’impegno comune di abbattere le emissioni del 40% entro il 2030 così da limitare il riscaldamento globale a +2°C.
Nel coro stonano un po’ le parole del premier indiano Narendra Modi che, pur riconoscendo la necessità di affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici, ha avvertito: “Il cambiamento climatico non l’abbiamo prodotto noi e i Paesi in via di sviluppo hanno il diritto di continuare a usare il carbone se questo serve a far crescere le loro economie”. Una ragione discutibile, ma pur sempre una ragione. L’11 dicembre, giorno di chiusura dei lavori, il verdetto finale.
Luca Angelini
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