
Un lenzuolo bianco nasconde l’agonia del Glacier du Rhone, il ghiacciaio del Rodano. Siamo in Svizzera, nel Canton Vallese, sull’apparato glaciale più studiato dagli scienziati. In quell’ambiente montano unico al mondo, dove si raccolgono i più vasti ghiacciai delle Alpi, quel lenzuolo steso pietosamente sui resti dei fasti di un tempo è oggi meta di turisti attoniti che, in luoghi remoti come questi, hanno la possibilità di toccare con mano le conseguenze drammatiche di un mutamento climatico troppo rapido e reale ma, nell’immaginario comune, ancora troppo astratto se non addirittura miscreduto.
Là sotto c’è la storia delle nostre montagne che viene divorata al ritmo di 8 metri e mezzo all’anno. Eppure, climaticamente parlando, non sono poi così lontani gli anni in cui la lingua del ghiacciaio, sotto la spinta della cosiddetta P.E.G. si gonfiò così tanto da raggiungere e persino minacciare nel 1856 il villaggio di Gletsch, a 1.800 metri di quota. Ora invece si perdono 25 centimetri di spessore all’anno, così che da allora la fronte del “gigante” ha lasciato posto ai sassi per circa mezzo chilometro.

Così ecco quei tristi lenzuoli, stesi come sui mobili polverosi di una casa abbandonata, messi li come al capezzale di un malato terminale, nella speranza di alleviargli il più possibile le sofferenze, di allontanare il più possibile quel momento, nel tentativo disperato di preservare quel che resta di un destino ormai segnato.
Luca Angelini
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