Ipotesi di maggior diffusione dei virus in ambienti chiusi inquinati da polveri sottili

Come sappiamo in questi giorni, per contrastare l’abnorme diffusione del Covid-19, alias Coronavirus, i virologi raccomandano una distanza minima tra le persone di almeno un metro e mezzo. Questo distanziamento sociale sarebbe dovuto al fatto che le droplets (le goccioline) emesse da starnuti, colpi di tosse o anche semplicemente parlando, si depositerebbero per gravità e in pratica, oltre tale distanza, “cadrebbero” senza raggiungerci.

In realtà questo accade solo per l’espettorato e le particelle più grandi e pesanti, mentre quelle più piccole, minori di 1 µm (cioé un millesimo di millimetro di diametro), che sono poi quelle veicolanti il contagio per via aerea, subiscono un destino diverso.

Vista l’analogia delle dimensioni infatti, le particelle infettanti sono in grado di aggregarsi alle polveri fini prodotte dall’inquinamento atmosferico (PM1, PM2.5, PM10), rimanere così sospese in aria ed essere trasportate anche ad una certa distanza per via della loro capacità di galleggiamento, ben oltre il metro e mezzo prescritto. Parallelamente, uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Princeton, dell’Università della California-Los Angeles e del National Institutes of Health (NIH) ha dimostrato che questo processo consentirebbe al virus di rimanere vitale in aria anche fino a 3 ore dopo l’emissione dell’aerosol e, sulle superfici come la plastica, addirittura fino a 3 giorni.

Le ipotesi di più rapido contagio in ambienti chiusi siti in località particolarmente inquinate, come quelle cinesi, ma anche nella nostra area padana, potrebbero quindi essere spiegate proprio da questo processo. D’altra parte i dati ambientali confermerebbero l’elevata concentrazione di inquinanti nel nord Italia nei mesi di gennaio e febbraio.

Paolo Frontero e Luca Angelini

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